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Darsi al padel: farlo da tennisti non sempre è un vantaggio

Simili in superficie, molto diversi in profondità: il passaggio dal tennis al padel è molto più complicato di quanto possa apparire. La manualità aiuta, ma cambiano colpi, dinamiche, tecnica, tattica, filosofia e tanto altro. L’efficacia conta (molto) più dello stile, e bisogna anche imparare a giocare di squadra

29 aprile 2023

In termini di risultati raggiunti con la racchetta, Roberta Vinci è l'ex giocatrice più forte ad aver completato il passaggio tennis-padel (foto Giampiero Sposito)

Non sarà mai un salto nel buio, piuttosto un percorso disseminato di trappole. Tennis e padel tornano a condividere una stessa frase, stavolta senza competere, al contrario. Per trovare il compromesso e venirsi incontro. Perché, che lo si voglia o no, che lo si accetti come vizio del tempo o meno, basta guardare la realtà: passare da uno all’altro, con eventuale ritorno, è la pratica più diffusa.

Nei paesi latini, che al padel hanno dato i natali, non è raro partire dalla pala per arrivare alla racchetta. L’immediatezza del gioco inventato in Messico infatua all’istante, mentre l’innamoramento per corde e terra rossa ha bisogno di più tempo e volontà. Ci si deve credere di più, perché di più esige. Tuttavia, chi pensa che il tennis sia un’evoluzione del padel, o il padel una semplificazione del tennis (sì, questo lo pensano i tennisti), probabilmente guarda solo la superficie, l’apparenza. Scendendo un minimo in profondità ci si accorge di avere a che fare con due sport differenti.

Ci sono diversi materiali e attrezzi che strizzano l’occhio alla similitudine. Una pallina gialla, una racchetta, una rete che divide in due un campo rettangolare. Ci sono anche alcune regole che lo fanno. Il conteggio dei punti, il servizio incrociato, l’eventuale primo rimbalzo da far cadere nella metà avversaria. Così però si rimane in superficie. A ben vedere ci si accorge abbastanza presto che già a partire dalla racchetta (che infatti si chiama pala) esistono caratteristiche parecchio differenti (della pallina leggermente più piccola e meno pressurizzata ci si accorge di meno). Iniziare a giocare a padel da tennista ha qualche pro ma anche diversi contro. La manualità aiuta, ma bisogna accettare di rivedere completamente il gioco, in primis a livello concettuale.

Il discorso inizia da un fondamento: in Italia si sta formando solo ora la prima generazione nata scegliendo il padel come primo sport in età di sviluppo; quindi, necessariamente si insegna e si impara partendo in alcuni casi da zero, se non da aspetti coordinativi preesistenti, ma più spesso da vizi di forma e contenuto da correggere, smontare, riordinare, riassemblare.

Nell’ampio campo delle differenze se ne incontra subito una filosofica: la prima regola del padel è non sbagliare. Più concretamente, sono le variabili tempo e spazio a modellare il gioco e a scavare le distanze rispetto agli altri sport di racchetta. Come disse a un giornalista il prossimo allenatore campione d’Italia Luciano Spalletti durante una conferenza stampa (già solo questa frase suggerisce il livello di diffusione che ha raggiunto il padel nel Paese): “Sai perché ti piace il padel? Te lo dico io. Perché non sei tu ad inseguire la pallina, è lei a venire da te”.

Essere dentro una scatola permette, sapendosi muovere, di avere la pallina sempre in gioco, sempre a disposizione. Gli spazi si stringono, i tempi di reazione anche. Diventa perciò necessario perdere meno tempo ed energia possibili nelle azioni e ridurre al minimo la preparazione dei colpi. Essere essenziali è un pregio: aperture e finali corti, baricentro basso (così come le stesse aperture) da fondo campo perché si gioca ad altezze inferiori man mano che si sale di livello: le dinamiche suggeriscono che la pallina più fastidiosa è la più bassa, non la più veloce.

Detto che un altro dei paletti di riferimento è: “Basta che funzioni”, togliere l’apertura alta, ariosa e circolare del tennista è uno dei primi step per far funzionare meglio le cose. Non serve generare tutta quella energia, la richiesta è molto minore. I maestri insegnano che a padel si gioca o al 30% o al 150% della forza, aggiungendo poi che le condizioni ideali per sprigionare il 150% si verificano raramente, almeno a livello amatoriale (por tres, por quatro, vibora, smash al vetro di fondo per far tornare la palla nel proprio campo). Tenere a freno la volontà di “picchiare” è un altro ostacolo sul ponte che porta da un’isola all’altra.

Nel padel il controllo è tutto. Tempi e spazi rendono il gioco sì più essenziale nei gesti, ma anche più dispendioso a livello cognitivo. Posizione, tattica e strategia sono fattori rilevanti almeno quanto la tecnica. La ricerca degli angoli stretti o di colpi complicati come la smorzata è spesso controproducente, se non sostenuta da una condizione tattica vantaggiosa. Giocare al centro non solo non è peccato, ma è spesso la scelta più saggia. Idem dicasi per la profondità, da preferire alla velocità. A guidare l’approccio mentale non dev’essere la foga, la smania di vincere il punto, ma la pazienza del costruirlo.

Ai tennisti fa male sentirlo, ma va detto: con la pala l’efficacia conta più dello stile. Il padel è uno sport pragmatico, ma è anche vero che si sviluppa una maggiore varietà di colpi e di situazioni durante ogni singolo scambio rispetto al tennis. C’è meno ripetitività. I vetri non sono specchi in cui riflettere la propria bellezza nei gesti: badare al sodo è un altro mantra da appuntarsi.

Già, i vetri, più in generale le pareti. Sono quelle che cambiano le carte in tavola (tempi e spazi, di nuovo). Il vetro di fondo (alle origini un muro) è il terzo compagno di squadra, l’elemento del discorso al quale si riferiva anche l’allenatore del Napoli. Farsi superare dalla pallina è uno degli istinti più difficili da vincere per un tennista, giacché nel tennis, se succede, significa punto perso. Al contrario, su un campo da padel diventa un’esigenza: da fondo, il margine d’errore nel colpire al volo o di controbalzo schizza alle stelle, mentre capire (con l’esperienza) come il vetro restituisca la pallina in base a velocità, altezza, effetto e angolazione (in questo senso sono avvantaggiati i giocatori di squash) è un percorso meno intuitivo ma più vantaggioso. È sempre questione di convenienza.

L’elenco delle differenze che diventano riflessi incondizionati da sconfiggere è ancora lungo. Per quanto scritto sopra, risulta più efficace lo spin in back che in top (che comunque non è reato: utile ad esempio da fondo, con l’avversario avanti, per far scendere la pallina appena dopo la rete, ovviamente controllandone la velocità). Trattando di colpi, ce ne sono due che semplicemente nel tennis non esistono e che di conseguenza vanno innestati: bandeja e vibora. Il pallonetto non è un colpo tra il difensivo, il disperato e l’indegno, tutt’altro: fondamentale padroneggiarlo per avviare la transizione positiva, passare cioè da difesa ad attacco. Il passante dà gusto ma, di nuovo, non conviene, anche perché, ammesso che passi, poi spesso ritorna.

Infine, il regolamento. A padel si gioca in coppia, sì o sì. Si tratta quindi di gioco di squadra, con ripercussioni psicologiche e tattiche. Nel gioco di scacchi delle posizioni in campo da una parte serve comunicare di più tra compagni, aiutarsi a leggere le situazioni, in particolare quando uno dei due corre indietro verso il vetro di fondo o guarda in alto per incontrare un pallonetto. Dall’altra bisogna coprire il campo in due muovendosi con raziocinio, studiando le traiettorie più comuni. I professionisti sanno posizionarsi anche in maniera asimmetrica, ma generalmente è buona norma avanzare o retrocedere insieme, stessa cosa negli spostamenti laterali.

I doppisti possono trovarsi a loro agio nel gioco a rete, meno i singolaristi, vista l’evoluzione del tennis che sta andando a privilegiare sempre di più il colpo a rimbalzo. In sostanza, le differenze fra i due giochi di racchetta sono parecchie e vanno riconosciute, rispettate e infine accolte. Senza però dimenticare la regola zero di ogni attività sportiva: il sano divertimento.

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